Estratto sulla "Solitudine"
di Roberto Bombagi

La solitudine uccide, se non sei tu a decidere deliberatamente di voler stare da solo. Si dice che possiamo pensare, parlare, ed esprimerci, limitatamente ai vocaboli che conosciamo. E questo è il problema per cui la nostra cultura tende a vedere la solitudine come qualcosa di negativo: perché non ha parole per differenziare i due concetti che in inglese vengono definiti loneliness e solitude. Loneliness può essere parafrasato con il “sentirsi soli”, ed è la sensazione associata a sentimenti di vuoto e isolamento; è uno stato in cui sembra sempre che manchi qualcosa o qualcuno, nonostante siamo circondati da numerose persone. Questa è quella solitudine che fa male, che aumenta il rischio di sviluppare disturbi psicologici, come l’ansia e la depressione, declino cognitivo, e perfino stati di infiammazione cronica, accorciamento dei telomeri, e sviluppo di cancro. Solitude, al contrario, può essere parafrasato come “stare da soli”, per scelta. È la scelta di essere da soli e di utilizzare quel tempo sia per la riflessione che per il semplice godimento della propria compagnia. È l’essere presenti con se stessi, sentirsi connessi alla propria anima, e radicati alla propria parte più selvaggia e profonda. È quella solitudine “buona”, che fa bene, e che rigenera corpo e mente. Si può definire come uno stato di presenza consapevole, senza fuggire dalle altre persone, o dalle proprie ombre, ma imparando ad accoglierle per trasformarle in nuovi valori, risorse e opportunità. La solitudine, quindi, può essere una scelta, quando è deliberata e volontaria, ed è ciò che fa bene alla nostra anima. Quando stiamo da soli possiamo oscillare tra la solitudine e la socializzazione. L’opzione di riconnettersi con altre persone è sempre presente e può essere fatta in modo piuttosto fluido e consapevole. Quando ci sentiamo soli, invece, non abbiamo controllo. È quest’ultima che nell’Harvard Study of Adult Development viene intesa come un fattore di rischio negativo per la nostra longevità.

Coltivare la propria anima significa quindi saper stare bene con se stessi, senza sentirsi a disagio, o dovendo cercare un modo per distrarsi, come tirando fuori dalla tasca il proprio smartphone. Nella nostra società, stare da soli è visto come qualcosa di strano; se provate ad andare al ristorante da soli probabilmente verrete guardati dal cameriere, e dagli altri, come delle strane creature mitologiche. La verità è che questo succede perché la maggior parte delle persone non sa stare bene con se stessa. Le persone hanno paura di stare da sole perché temono di sentirsi sole. Questa è la differenza. 

L’epidemia di solitudine che stiamo vivendo, potrebbe avere un ruolo decisamente maggiore di tutte le precedenti pagine che hai letto. Dal punto di vista evoluzionistico, gli esseri umani sono creature sociali. La nostra capacità di formare legami sociali e di vivere in gruppi ha giocato un ruolo cruciale nella nostra sopravvivenza come specie. Durante l’evoluzione, la cooperazione all’interno dei gruppi ha fornito benefici significativi, come la condivisione delle risorse, la protezione da predatori e la possibilità di allevare i figli in un ambiente protetto. Di conseguenza, i nostri cervelli e il nostro comportamento sono stati modellati per cercare il contatto sociale e per sentirsi inclusi all’interno della comunità. L’isolamento sociale, quindi, può essere percepito come una minaccia alla sopravvivenza, poiché andrebbe contro i nostri istinti evolutivi. È razionale, quindi,  che gli esseri umani abbiano sviluppato una sensibilità nei confronti della mancanza di contatto sociale e che cerchino attivamente di evitare la solitudine. Questo è un riflesso dell’importanza dell’appartenenza sociale e del sostegno emotivo nella nostra storia evolutiva. Tuttavia, come spesso abbiamo discusso in questo libro, è proprio la nostra stessa società ad essere andata contro la nostra stessa evoluzione. Nel primo capitolo, infatti, abbiamo già accennato al fatto che oggi più che mai siamo a contatto con sempre più persone; il punto è che nonostante siamo circondati da sempre più persone, la qualità dei nostri legami sociali è diminuita drasticamente, e che questa mancanza può essere più dannosa per la salute del fumare 15 sigarette al giorno, aumentando il rischio di mortalità del 50%. Uno studio pubblicato sul Perspectives on Psychological Science ha persino mostrato come le persone che si sentono sole, indipendentemente dall’età e dalle risorse economiche, hanno il 26 per cento di rischio in più di morire nei successivi 7 anni. E la cosa paradossale, è che sono proprio le persone immerse in ambienti sovrappopolati a sentirsi sempre più sole. Chi vive in città affollate e caotiche, dove sembra impossibile sentirsi soli, sono proprio le persone che soffrono maggiormente di un senso di solitudine. Questo perché l’isolamento riguarda la qualità e il significato delle relazioni, più che la loro quantità o apparenza.

Soprattutto, oggi, tentiamo di colmare il senso di vuoto che abbiamo dentro, con le connessioni sociali digitali. Così ci sembra di essere sempre più connessi, ma non facciamo altro che sentirci sempre più soli, alimentando un circolo vizioso senza fine. La verità è che, come diceva Epiteto, nessuno è libero se non è padrone di se stesso. Per passare dal sentirsi soli ad apprezzare la capacità di stare da soli, è necessario prima di tutto comprendere la solitudine, e le emozioni che questa ci provoca. La solitudine non deve essere vista come qualcosa di imbarazzante, o di cui vergognarsi, ma piuttosto come un’opportunità di cercare le risposte dentro se stessi. Affrontarla senza pregiudizi, ma con assoluto rispetto, è ciò che può permetterci di sfruttarla a nostro vantaggio, permettendoci di allenare la nostra parte più profonda, la nostra anima.
 

Alla salute!

Rob 🙂


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